sabato 25 aprile 2015

Riceviamo e pubblichiamo.

Intervista a Oscar Farinetti di Eataly: "Mio padre partigiano liberò l'Italia. Ora ci vorrebbe una nuova liberazione. Ma Renzi da solo non basta"

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FARINETTI
A ottant’anni suonati, fazzoletto tricolore al collo, guidò la contestazione a Gianfranco Fini: «L’amministrazione di Alba aveva invitato l’allora vicepresidente del consiglio. Per mio padre, era insopportabile ospitare un fascista – perché, per lui, Fini rimaneva un fascista – nella città medaglia d’oro per la resistenza. Fece di tutto per fermarlo». 
L’indomito partigiano descritto risponde al nome di Paolo Farinetti, comandante della XXI brigata Matteotti, personaggio leggendario della resistenza piemontese, poi fondatore dell’azienda Unieuro, una prosecuzione della politica con altri mezzi: «Il nome è un omaggio ad Altiero Spinelli. Significa Europa unita, un tributo al suo Manifesto di Ventotene».
Dopo essere stato raccontato dagli storici della resistenza, per la prima volta è il figlio Oscar, creatore di Eatlay e uno dei capi d’azienda più di successo del nostro paese, a presentarlo a tutti: "Ho voluto raccontare la sua storia nel settantesimo anniversario della liberazione per affermare, nel mio piccolo, una verità: che allora la ragione stava da una parte e il torto dall’altra, c’è bisogno di marcare questa verità dopo la lunga stagione del revisionismo italiano". 
L’epopea del comandante Paolo – con i suoi momenti gloriosi (la liberazione di Alba) e quelli angosciosi (le ferite di battaglia e quelle della vita, nel difficile dopoguerra) – è esposta per intero nel libro Mangia con il pane (Mondadori). Al telefono conl’Huffington Post, però, Oscar Farinetti parla anche d’altro: "La nuova liberazione di cui l’Italia avrebbe bisogno, ora che sta di nuovo toccando il fondo". Ma ci arriviamo.
Farinetti, ma lo spiegò a suo padre che Gianfranco Fini aveva fatto – dal congresso di Fiuggi in poi – un percorso per rinnovare la destra?
Ci provai. Lui, però, non ne voleva sapere: ai suoi occhi, un fascista era sempre un fascista. Aveva una ripulsa fisica per chiunque avesse sostenuto il regime, e anche per chi l’aveva giustificato.
Che senso ha raccontare quella storia oggi?
Prima di ogni cosa, per affermare che il torto sta dalla parte di chi ha firmato le leggi razziali, di chi ha voluto fare una guerra in cui ci sono stati 55 milioni di morti, dalla parte di chi ha impedito per vent’anni di esprimere libertà di pensiero. 
Seconda cosa?
Per dire che la guerra partigiana è stata condotta con grande determinazione, molto coraggio, decine di gesti eroici: ma anche con moderazione. Mio papà non ha mai fucilato nessuno. Ha sempre trattato bene i prigionieri e li ha usati per gli scambi. Infine, ho pensato ai miei figli e alle nuove generazioni. Volevo mandare loro un messaggio.
Quale?
È vero che gli alleati avrebbero liberato l’Italia anche senza i partigiani. Ma l’importanza della resistenza sta nella riscossa. Combattendo, gli italiani si sono riappropriati del loro paese, sono stati protagonisti, non comparse della storia.
Si è mai interrogato sulle scelte che ha compiuto l’altra parte dell’Italia, quella fascista?
La storia dimostra che dopo il 25 aprile del 1945 anche alcuni partigiani hanno consumato delle vendette. Non ho difficoltà a dirlo: hanno sbagliato. Ciò, però, non è paragonabile agli eccidi compiuti dai nazi-fascisti, e non cambia il senso della storia. Vede, anche i vietnamiti non sono andati alla leggera con gli americani. Ma la ragione stava dalla parte del Vietnam, il torto dalla parte dell’America. 
Scrive: «Mio padre non era un padrone, era un comandate». 
Nelle scelte di mio padre, anche in quelle imprenditoriali, c’erano sempre degli obiettivi poetici. Il padrone è orientato al profitto e soltanto al profitto. Mio padre non era così, puntava all’armonia del gruppo, aveva come priorità le persone: era un portato di quell’esperienza straordinaria vissuta lì sui monti.
È rimasto questo il modo di fare impresa a Eataly?
A me fa orrore il capitalismo finanziario. Guadagnare soldi dai soldi, significa far scomparire il rischio d’impresa. Io mi sento molto più figlio della generazione di mio padre, dove l’imprenditore scaricava i camion, sapeva cos’era la fatica. 
È il mio modello: l’imprenditore che ha coraggio, che investe tutti i suoi guadagni nell’azienda che li ha prodotti. Non lo trovo affatto un modo arcaico: anzi, credo sia molto moderno.
Suo padre le diceva: «Si può stare tranquilli solo dopo le cinque». Era l’ora in cui le banche chiudevano e smettevano di stargli col fiato sul collo.
Mi fanno molta pena, oggi, gli imprenditori che fanno credito e non lo ricevono. Mi fanno ancora più arrabbiare le banche che prestano i soldi a chi li ha già. Devo dire, però, che ho incontrato anche imprenditori che si lamentano molto, che vanno in televisione ad urlare, e forse non hanno grandi progetti a cui dedicarsi. Ecco: penso che ci siano imprenditori che meritano credito e imprenditori che non lo meritano. L’Italia dovrebbe investire sulle imprese che puntano alle specificità italiane: la bellezza, l’arte, la cultura. Incentivando chi rischia e mette in gioco la propria vita, le proprie ore di lavoro, i propri soldi.
Ha appreso molto da suo padre e dalle sue fatiche. Oggi è diventato un imprenditore di successo. Le chiedo: i suoi figli – che lavorano con lei – possono imparare l’etica del sacrificio che sta elogiando dalla posizione di privilegio da cui partono?
Ma io ho Eataly l’ho fondata insieme ai miei figli, otto anni fa. E il motivo principale per cui io ho lasciato Unieuro per fare Eataly è proprio questo: ho visto che loro volevano lavorare insieme a me e ho pensato che fare un progetto insieme sarebbe stata la cosa migliore. Sono ri-partiti da zero. Il successo di Eataly è merito di tutti noi. In più, ora, ho deciso di lasciare l’azienda. Per cui, Eataly è più loro che mia. 
Scrive: «Ci vorrebbe una nuova liberazione». Ma da cosa? 
Penso che all’Italia serva un nuova primavera. L’8 settembre del ’43 toccammo il fondo e da lì ripartimmo. Credo che questo paese si stia di nuovo avvicinando al fondo e abbia bisogno di risollevarsi. Come? Non credo che la via giusta sia quella di Maurizio Landini: la primavera dei lavoratori contro gli imprenditori. Sogno, invece, una primavera che unisca tutte le categorie di persone, dalle più umili alle più colte, per resistere al degrado del senso civico, al vittimismo isterico, al piagnisteo che non cerca e non vuole soluzioni, all’approssimazione di certi media scandalistici.
Non la vede incarnata in Matteo Renzi, questa primavera?
Renzi non basta. Mi piace, mi piace la sfida che ha lanciato al benaltrismo; apprezzo l’idea riformista secondo cui è giusto fare le cose, anche se sono imperfette. Ma non basta. Per reagire, un paese ha bisogno di tutti i suoi cittadini, non del solo uomo al comando.
Ripete spesso un insegnamento di suo padre: «Valgono più le persone che le cose». A Firenze, i lavoratori di Eatalay l’hanno accusata di mettere davanti alle loro vite il suo profitto.
Non sono i lavoratori di Firenze che mi hanno accusato. Sono tre – ripeto: tre – lavoratori dei Cobas. La verità è che non avevano tanta voglia di lavorare. Ma siccome questo non potevano dirselo e dirlo, hanno lanciato quella campagna. Il can can mediatico è partito e il caso è divampato. Ma le assicuro, erano tre. E sarebbe terrificante se io dicessi le cose che ho detto a lei e nel mio lavoro mi comportassi in maniera opposta. Non è affatto così. Se fosse vero, credo che non avrei avuto il successo che ho avuto. Chi sfrutta le persone, chi fa il furbo, non va mai da nessuna parte. È un altro insegnamento che ho ereditato da mio padre.

Il grande statista Salvini è stato fregato.

Regionali Liguria, accordo Fi-Area Popolare. Ora che dice Salvini?

Pubblicato il 24 aprile 2015 da Giacomo Salvini  
In poche ore il pugile è stato messo all’angolo. E fa fatica a rialzarsi. Matteo Salvini all’AdnKronos commenta cosìl’accordo arrivato ieri tra Forza Italia e Area Popolare sul candidato governatore della Liguria, Giovanni Toti: “Spero che qualcuno, anche da quelle parti, si renda conto che Alfano è il passato e non certo il futuro. Chissà che non ci siano segni di vita”. Dichiarazione di facciata che – come al solito – può voler dire tutto e il contrario di tutto. Ma tant’è, la contraddizione del Carroccio rimane tangibile: come si può dare addosso ad Alfano, nei giorni pari, e a tutto il suo partito, nei giorni dispari, per poi correre insieme in Liguria? Ora potrebbe essere troppo tardi per scaricare Forza Italia e tornate al “celodurismo” di bossiana memoria.

Accordo Berlusconi-Salvini

Un passo indietro. Il 2 aprile scorso Salvini e Berlusconi, dopo una sequela di incontri a Villa San Martino, avevano stipulato un accordo: Forza Italia sostiene Zaia in Veneto, la Lega – in cambio – ritira Rixi al posto di Toti e il Nuovo centrodestra rimane fuori dalle alleanze. Nelle altre (Toscana, Puglia, Campania, Umbria e Marche) si corre separati. Tutto fatto. Ieri, la beffa. Va detto, però, che i rapporti di potere tra le due maggiori forze del centrodestra sembrerebbero non essere cambiati di una virgola. Politichese, si capisce, ma l’election day regionale è sempre una prova molto ostica per il governo.

Trattativa con Ncd

Già nella serata di ieri le agenzie battevano la notizia. Aska news parlava di “lunga trattativa” in un albergo di Genova tra lo stesso Toti, il responsabile enti locali di Area Popolare, Salvatore Misuraca, e il deputato e coordinatore regionale di Forza Italia, Sandro Biasotti. Tutto “in constante contatto” con Edoardo Rixi (ex candidato della Lega nord in Liguria) e Ignazio La Russadi Fratelli d’Italia. Stamani la conferma è arrivata anche con un tweet dell’ex ministro dell’agricoltura Nunzia De Girolamo, da sempre fautrice della riunificazione del centro-destra nazionale: “Caro @GiovanniToti anche in #Liguria ci siamo riusciti. Mio sogno di riunire moderati e #centrodestra è ancora possibile. Ora vinciamo insieme”. Pronta la risposta di Toti: “Grazie Nunzia. Tranquilla…si vince. E #cambiamoinsieme la Liguria”.
Liguria, accordo Toti-Ncd
L’accordo è arrivato nelle ultime ore proprio per dare l’assalto definitivo alla fortezza di Raffaella Paita, candidata del Partito Democratico e favorita alla successione di Caludio Burlando. L’ultimo sondaggio di Emg, infatti, darebbe la candidata democratica al 32% con Toti distante solo di due punti (30%) e, a seguire, Alice Salvatore (M5S) al 21% e Luca Pastorino (appoggiato dai civatiani e dalle liste civiche) al 17%.

Paita rischia

Ora, secondo molti, la Paita può iniziare a tremare anche perché all’interno di quel 32% di consensi che le vengono attribuiti dai principali istituti di sondaggi, ci potrebbero essere anche elettori del Nuovo centrodestra che fino a ieri continuava ad appoggiare la candidata renziana. E l’avviso di garanzia per disastro, omicidio colposo e omissione di atti in ufficio arrivato qualche giorno fa, potrebbe complicarle ancora di più le cose.

Articolo da non perdere.

Quanto sono esperti gli esperti?


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Di solito agli “esperti” si attribuisce una capacità divinatoria superiore a quella degli innumerevoli maghi Otelma. Cioè si dà per scontato che, avendo dimostrato ottima conoscenza in una scienza o una tecnologia allo stato in cui si trova oggi, o avendo inventato qualcosa di geniale, l’esperto sia anche in grado di dirci come evolverà il suo settore di competenza in futuro.
Ma quanto c’azzeccano, questi esperti? In tema di sviluppo tecnologico, e di energia in particolare, si direbbe molto poco: anche quando fanno previsioni a brevissimo termine. Sia quando si mostrano scettici; sia, ancor di più, quando manifestano entusiasmo.
Facciamo qualche esempio. 
Energia elettrica. Nel 1879 il Select Committee on Lighting by the Electricity, appartenente alla Camera dei Comuni di Londra, tenne una udienza durante la quale un esperto dichiarò: “there is not the slightest chance that electricity couldbe competing, in a general way, with gas (per l’illuminazione ndr).” Tre anni dopo, a New York, Edison inaugurò il primo servizio commerciale di illuminazione mediante corrente elettrica. Corrente continua, generata nella celeberrima powerstation di Pearl Street. 
Lo stesso Edison, dall’alto della sua genialità, ebbe a scrivere nel 1889: “My personal desire would be to prohibit entirely the use of alternating currents . . . I can therefore see no justification for the introduction of a system which has no element of permanency and every element of danger to life and property . . . I have always consistently opposed high-tension and alternating systems . . . because of their general unreliability and unsuitability for any general system of distribution.” 
Negli stessi anni, soggetti che rispondevano al nome di Nikola Tesla, George Westinghouse e Sebastian Ferranti (carneadi: chi erano costoro?) sostenevano il contrario, costruendo le prime reti a corrente alternata. Naturalmente, le centralidi generazione, e le reti di trasporto e distribuzione di energia elettrica producono, trasportano e distribuiscono, ormai universalmente, corrente alternata. 
Automobili. Nel 1900 Henry Ford aveva come concorrenti delle sue automobili a motore a scoppio le macchine elettriche e quelle a vapore. Edison (of course) sosteneva quelle elettriche. Che dominavano un mercato nascente. Furono costruite, fra New York e Filadelfia, sei stazioni per ricaricare le batterie, rendendo possibile viaggiare tra le due città con una macchina a motore elettrico alimentato da batterie. Due anni dopo, a Boston c’erano 36 stazioni per ricaricare le batterie delle automobili. 
Ciononostante, Ford continuava a conquistare fette di mercato. Edison si intestardì fino al 1909, quando mise in commercio una batteria alcalina ad alta densità. Fu impiegata nelle miniere, e nei sottomarini. Ma non sulle automobili. Le automobili avrebbero viaggiato mediante un motore a combustione interna.
Aeroplani. “A bit crude”, anche per i propri tempi. Cioè, un tantino … artigianale. Così lo Smithsonian definisce il motore del Wright Flyer, il primo aereo a decollare con un motore a bordo: 17 dicembre 1903. Pilota Orville Wright. Un volo“impossible” e “chimerical”, secondo l’Ammiraglio Melville, che appena due anniprima scriveva: “… there probably could be found no better example of the speculative tendency carrying man to the verge of chimerical than in his attempts to imitate the birds …”. 
Un caso isolato? No. Un anno dopo il volo, Octave Chanute, esperto costruttore di aliantiscriveva che: “…aeroplanes will eventually be fast, they will be used in sport, but they are not to be thought as commercial carriers…”.
Perfino Orville Wright, il primo uomo a far decollare un aereo ebbe a dichiarare: “Nessun aeroplano volerà mai fra New York e Parigi (senza scalo ndr)”.
Questa manifesta incapacità di vedere oltre il proprio orizzonte mentale, sorta di timidezza intellettuale, durò fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Fu poi sostituita dall’opposta tendenza, cioè quella che venne definita come la “fede eccessiva nel potenziale pratico delle nuove tecnologie”. 
Energia nucleare, fissione. L’esempio più clamoroso è probabilmente quello fornito dalle speranze riposte nell’energia nucleare come fonte per produrre energia in grandissime quantità e a basso prezzo. Negli anni ’40 s’era inebriati dai successi ottenuti con la fissione dell’atomo. Perciò affermazioni quali “il consumo, non la produzione (di energia ndr) sarà il problema” possono rientrare, sia pure a fatica,nel novero degli entusiasmi giovanili. 
Ma quel che venne dopo, decisamente no. Un Nobel, Seaborg, nel 1971, predisseche dall’energia nucleare sarebbero derivate elettricità, fertilizzanti, desalinizzatori per irrigare deserti e renderli disponibili alle coltivazioni, idrogeno per essere usato quale propellente di automobili, e mille altri impieghi. 
Fra cui navi da trasporto e passeggeri, ed aerei, a propulsione nucleare. L’energia nucleare sarebbe inoltre stata impiegata per produrre minerali, cambiare il corso dei fiumi, aprire (riscaldandole), nuove baie alle navi in Alaska e Siberia. E perfino per mandare uomini su Marte a bordo di missili a propellente nucleare. 
Hans Bethe, altro Nobel per la fisica, scrisse nel 1967 che “lo sviluppo vigoroso dell’energia nucleare non è questione di scelta, ma di necessità”. Furono finanziati a livello governativo progetti per i reattori “breeder”, cioè auto-fertilizzanti: in grado, cioè, di produrre energia e, contemporaneamente, materiale fissile in quantità superiore a quello consumato.
Quanti ad oggi ne sono stati costruiti? Neppure uno. L’unico americano, un piccolo reattore sperimentale, fu spento nel 1994. Dopo molti miliardi di dollari spesi inutilmente. 
Energia nucleare, fusione. Agli anni settanta risale anche la fede riposta nella fusione nucleare. Il traguardo fissato nel 1972 fu di produrre energia elettrica per fusione nucleare nel 2000. Dopo più di quarant’anni e venti e passa miliardi di dollari spesi, le più ottimistiche previsioni collocano il traguardo intorno al 2070 – 2080Le più pessimistiche, parlano di due-trecento anni. 
Nell’ottica di ridurre le emissioni per contrastare il riscaldamento globale vengono proposte delle nuove tecnologie, in particolare la CCS, carbon capture and storage, e nuove forme di energia, come il solare termico e le auto elettriche. 
Alla luce di quanto detto sopra, v’è da sperare nella loro efficacia? Quanto costerà metterle in campo, e quando saranno disponibili? Ammesso che si affermino, sono tecnologie che richiederanno decenni per imporsi su larga scala.
E quindi per tornare al quesito iniziale: quanto sono esperti gli esperti, quando parlano di futuro? In genere, non molto. Un sano scetticismo è caldamente consigliato. 
Mario Giardini

Riceviamo e pubblichiamo un interessante articolo di Oscar Giannino.

Fisco: lo Stato usa due pesi e due misure per se stesso e i contribuenti

Lo Stato dovrebbe essere rigoroso con chi non rispetta le regole fiscali e fare altrettanto con se stesso quando succede. E invece non è così
Il fisco italiano non ha senso finché si dà ragione e scrive le sentenze da solo

(ANDREAS SOLARO,ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

   
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In un paese civile e ordinato, il fisco dovrebbe essere una materia chiara nelle sue norme e rigorosa nella reciprocità dei rapporti: lo Stato rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto verso i contribuenti. Invece, da decenni aggiungiamo stortura a stortura. Il dovere fiscale è fatto di norme sempre più complicate e fumose. E lo Stato, in nome della lotta all’evasione e in difficoltà nei conti pubblici, sempre più pretende dal contribuente comportamenti ai quali è il primo a sottrarsi. La conseguenza? Lo Stato rigoroso a senso unico perde credibilità e legittimità, e senza di queste non vincerà la lotta all’evasione.
Lo Stato dovrebbe essere rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto
Alcuni esempi concreti, che danno evidenza al nostro assunto. Martedì è ripreso il tortuoso cammino dell’applicazione della delega fiscale, dopo l’incidente in cui il governo è incorso alla vigilia di Natale con un testo – rimasto senza padre, scomparso nel silenzio – in cui affiorava un’incredibile norma di depenalizzazione della frode fiscale. Dei tre decreti delegati approvati martedì in Consiglio dei ministri e che ora andranno all’esame parlamentare, uno molto atteso riguarda il cosiddetto “abuso di diritto”. Tra le tante stranezze indigeribili del nostro paese, vi era quella di un reato penale tributario, l’elusione fiscale da abuso di diritto, mai scritta da alcun legislatore in alcun codice, ma entrata nel nostro ordinamento attraverso estensive definizioni giurisprudenziali, cioè con sentenze dei giudici, fino a pronunzie di Cassazione che ne avevano definito la fattispecie. Era divenuto reato penale la scelta da parte di un’impresa, nel pieno rispetto delle leggi fiscali esistenti – ripetiamolo: nel pieno rispetto delle leggi esistenti, senza violarne alcuna – di allocazioni di asset o di attività da cui conseguisse un vantaggio fiscale. Poiché la norma ha creato infinite interpretazioni diverse, affidate alla discrezionalità del giudice, e vasto contenzioso, la legge delega chedeva di fare finalmente chiarezza.
La chiarezza è consistita nel fatto che il reato non sarà più penale ma amministrativo, ma per il resto esso resta praticamente com’era stato in precedenza definito dalla Corte di Cassazione. Certo, si scrive che sarà l’Agenzia delle Entrate a doverlo provare (altra stortura, nel nostro ordinamento ha finito per prevalere l’idea che spetti al contribuente l’onere della prova..), e si ammette benignamente la possibilità che l’impresa possa preventivamente interpellare l’Agenzia prima di compiere la sua scelta (altro segno che non ci siamo: chiedere preventivamente permesso prima di fare una cosa è la miglior riprova che le norme da sole non consentono di capirlo). Ma resta il fatto che, se nel pieno rispetto delle norme vigenti un’impresa dovesse compiere scelte o assumere condotte tali da realizzare un prevalente vantaggio fiscale rispetto a quello economico o organizzativo, ecco che allora Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avranno comunque la facoltà di contestarlo in nome del fatto che il risparmio fiscale sia illegittimo. L’imprenditore non può perseguire un vantaggio fiscale consentito dalle norme, se non ci sono evidenze che il vantaggio prevalente conseguito in conto economico e patrimoniale venga da altro: come se il fisco fosse una componente residuale, del risultato finale annuale.
Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo
Aspettarsi da un simile “chiarimento” meno incertezza e contenzioso è del tutto singolare, per non dire lunare. Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo. Da una norma così, le imprese ricavano la non trascurabile certezza di evitare il penale, non quella di sapere con sicurezza che scelte poter compiere tali da evitare contestazioni tributarie. E in ogni caso il precedente contenzioso resterà in piedi penale compreso, secondo la pessima abitudine del fisco di non riconoscere che, quando una nuova norma è in favore di presunti precedenti rei, l’accusa decade automaticamente.
Si dirà che nei decreti delegati vi sono comunque novità positive, dal decadere dei doppi termini di accertamento da 4 a 8 anni che l’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto per sé in presenza di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, alla fatturazione elettronica che gradualmente supera spesometro e scontrini. Verissimo: ma quanto a chiarire in che cosa consista la presunta elusione nella scelta di opzioni fiscalmente più vantaggiose offerte dalla stessa legislazione italiana ed europea, il decreto ha fallito la delega che gli era affidata. Ed è lo Stato a riservarsi discrezionalmente l’ultima parola.
Lo Stato si scrive una sentenza per non pagare gli interessi al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse
A che cosa corrisponde questa opacità dello Stato verso il contribuente, quando il torto conclmato è dello Stato e non del cittadino? Vediamone alcuni esempi concreti. Il primo è la sentenza della terza sezione del TAR del Lazio il 15 febbraio scorso, sul caso della signora Ivana Antonietta Di Mambro. Riconosciuta la fondatezza della sua richiesta, e cioè il pieno riconoscimento di un indennizzo dovutogli dal ministero della Salute compreso il periodo dal 2009 a oggi, il TAR ha negato che siano dovuti alla signora anche gli interessi di mora intercorsi sul mancato pagamento. La giustificazione? Testuale: “vista la condizione in cui versa la Pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate, nonché la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica, particolarmente nel settore sanitario afflitto da disavanzi di notevoli dimensioni”. Chiunque dovrebbe insorgere, leggendo un simile dispositivo. Il contribuente, quand’anche ammesso a rateazione dallo Stato per mancanza di liquidi, paga profumati interessi di mora e non si può sottrarre. Lo Stato si scrive una sentenza per non pagarli al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse. Una cosa da monarchie assolute, in pieno dispregio dell’elementare reciprocità di legalità che deve caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadino. Eppure nessuno ha fatto un plissé, di fronte a una simile decisione del TAR.
Altri esempi, dal pacco quotidiano di segnalazioni da parte di lettori e ascoltatori. La Colorex di Lugo di Vicenza mi manda copia dell’atto per il quale, avendo richiesto accesso al regime di compensazione dei crediti IVA maturati nella sua attività di export, l’Agenzia delle Entrate chiede all’azienda una fidejussione a propria garanzia – dovessero risultare impropri i crediti – di 80mila euro. Inutile dirvi che oltre a essere proporzionata all’importo del credito, la richiesta di fidejussione comprende eccome anche gli interessi sul periodo relativo, al 2%. Ha senso per voi, che lo Stato chieda soldi in garanzia a coloro che maturano crediti fiscali nei suoi confronti? Datevi una risposta. E ancora. Da un’Agenzia viaggi in provincia di Modena, il cui titolare ha rateizzato 1400 euro di contravvenzioni e bolli non pagati, la fotocopia di una cartella esattoriale relativa a 12 centesimi di errore e sottostima nei pagamenti a saldo effettuati. Per la cui estinzione il contribuente dovrà versare la bellezza di 117 euro.
Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha
Infine, piovono sentenze come quella della commissione provinciale tributaria di Milano, che danno ragione ai contribuenti che impugnano come illegittimi gli atti di accertamento ed esecutivi sottoscritti dagli 800 dirigenti sanzionati come illegittimi dalla Corte Costrituzionale. Esattamente l’opposto della tesi sostenuta dalla direttrice di AgEntrate Orlandi,  per la quale è “vergognoso” anche solo pensar a impugnative di atti firmati da quei dirigenti, “perché i cittadini perderanno i loro soldi”. Un tono e un argomento incommentabile, da satrapìe dell’antico impero persiano.
Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha. Finché continua a darsi ragione da solo, chiedendo a noi di comportarsi come lui per primo non si comporta, il fisco deve riformare se stesso prima di riformare il paese.

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...