sabato 5 luglio 2014

Parole straordinarie.


Riceviamo e pubblichiamo.

La mezza bufala della Bundesbank contro Matteo Renzi

di   - 04/07/2014 - La vera storia delle parole di Jens Weidmann sul presidente del Consiglio. Che non ha mai detto "Renzi ci dice cosa fare".

La mezza bufala della Bundesbank contro Matteo Renzi
Le ultime ore sono state dominate da una polemica tra Italia e Germania basata su un presupposto inesistente. Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann non ha mai affermato che «il premier italiano dice che la fotografia dell’Europa è il volto della noia e ci dice anche cosa dobbiamo fare», non quantomeno nel senso che gli è stato attribuito dalla stampa italiana.

AP Photo/Markus Schreiber
AP Photo/Markus Schreiber
MATTEO RENZI, JENS WEIDMANN E LA STAMPA ITALIANA - Le prima pagine dei giornali italiani di oggi sono dominati dai presunti attacchi del presidente della Bundesbank Jens Weidmann contro Matteo Renzi.
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La Repubblica titola: «La Bundesbank attacca Renzi: “Ci dice cosa fare”.
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La Stampa invece nel sottotitolo riprende la stessa interpretazione delle dichiarazioni del presidente della banca centrale tedesca, con un «La Bundesbank: ora ci spiega lui cosa fare». Una delle fonti di questa versione delle parole di Weidmann, non certo tenere verso il governo italiano, è l’agenzia “Il Velino”.
Weidmann ha citato Renzi esplicitamente, dicendo agli esponenti dell’economia e della politica riuniti a Berlino dai cristiano-democratici che ‘il premier italiano afferma che la fotografia dell’Europa e’ il volto della noia e ci dice anche cosa dobbiamo fare’. (?) La grande paura del numero uno della Bundesbank e’ quella che i Paesi che spingono per promuovere la crescita facciano nuovi debiti. ‘Non e’ questo il presupposto della crescita’, ha affermato, sottolineando con forza il rischio che ‘i tassi bassi non vengano usati per fare le riforme ma per finanziare altre spese’.
MATTEO RENZI E LE VERE PAROLE DI JENS WEIDMANN - Dopo che sono circolate le prime agenzie, il governo italiano ha preso una posizione molto dura contro la Bundesbank, e la polemica è proseguita fino a poche ore fa, quando sono arrivate le dichiarazioni concilianti del portavoce di Angela Merkel e del ministro dell’Economia Padoan. La polemica, almeno in parte, non aveva però ragioni vere di esistere. Ecco cosa ha detto veramente Jens Weidmann, con la citazione in tedesca e successiva traduzione, all’incontro del Wirtschaftrat der Cdu di ieri. Ecco il passaggio del discorso pubblicato sul sito dellaBundesbank.
Empfehlungen aus Brüssel werden gerade von denen, die eine weitergehende Gemeinschaftshaftung fordern, häufig als Einmischung in nationale Angelegenheiten gesehen. Italiens Ministerpräsident Matteo Renzi vergleicht die EU zum Beispiel mit einer “alten, langweiligen Tante, die uns sagt, was wir tun sollen”.
I consigli da Bruxelles vengono spesso visti come un’intromissione negli affari nazionali da chi richiede un’ulteriore condivisione delle responsabilità. Il presidente del Consiglio italiano paragona l’UE per esempio ad “un’anziana, noiosa zia che ci dice cosa dobbiamo fare”
Weidmann non ha mai detto il «Renzi ci dice cosa dobbiamo fare», polemicamente riferito al fare più debiti come strada per ritornare alla cresciuta, suggerito dai giornali italiani. Il “ci dice cosa dobbiamo fare” era un citazione di quel che aveva detto il nostro Premier, riferendosi alla Ue. Sicuramente l’intero impianto del discorso del presidente della Bundesbank è distante dalle posizioni del governo italiano, ma una critica così esplicita e diplomaticamente incomprensibile non è stata mai affermata da Jens Weidmann, banchiere centrale che si è distinto in questi anni per l’ortodossia rigorista. Il presidente della Bundesbank è stato per esempio l’unico banchiere centrale dell’eurozona ad aver votato contro il programma Omt all’interno del Consiglio direttivo della Bce. Grazie a Pierlugi Menniti per lo spunto.

Un paese per vecchi.

Il paese dei pensionati inamovibili
Il governo inchioda Ortona sul trono di Arcus
In barba alla fantomatica riforma Madia


Di Stefano Sansonetti
La nomina è arrivata silenziosamente nei giorni scorsi sui tavoli delle commissioni cultura di Camera e Senato. Queste si dovranno esprimere sulla proposta di nominare l’ex ambasciatore Ludovico Ortona amministratore unico della Arcus, la società del Tesoro che si occupa di promozione di progetti culturali. Per Ortona, in realtà, si tratta di una conferma. Entrato in Arcus nel 2010, poco tempo dopo era appunto assurto al ruolo di amministratore unico. Si dà però il caso che nei giorni precedenti alla proposta di nomina il governo abbia presentato la riforma della Pa. E in essa, almeno a stare al comunicato diffuso lo scorso 13 giugno da palazzo Chigi, c’è un passaggio che sembra piuttosto eloquente: “è fatto divieto di assegnare incarichi dirigenziali a lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”, laddove per quiescenza si intende pensione.
La storia
Ora, si dà il caso che Ortona, classe 1942, sia proprio una “feluca” in pensione. Ma in questo caso, a quanto pare, il principio sancito nella riforma curata dallo stesso premier, Matteo Renzi, e dal ministro per la semplificazione, Marianna Madia, non ha trovato applicazione. Si dirà che la riforma in questione è stata più che altro annunciata, visti gli enormi ritardi e i pasticci che si sono verificati nel corso della stesura “a puntate” dei relativi decreti. E si dirà che il principio in questione è stato pensato per escludere pensionati dai ruoli dirigenziali nei ministeri. Ma se anche tutto questo fosse vero, considerata l’alea che ancora circonda i provvedimenti, rimane il fatto che la filosofia di base dell’intervento sembra essere stata elusa nel caso dell’Arcus. Va ricordato che la società è formalmente controllata dal ministero dell’economia, oggi guidato da Pier Carlo Padoan, ma agisce in base alle direttive impartite dal ministero dei beni culturali, sulla cui tolda di comando oggi siede Dario Franceschini. Per questo la proposta di nomina di Ortona, dal 1° luglio scorso, giace sul tavolo delle commissioni cultura di Montecitorio e palazzo Madama per ottenere i pareri di rito. Di sicuro la confidenza dell’amministratore unico con le istituzioni non è storia recente.
I precedenti
Basti pensare che nel 1985 Ortona ha fatto un’esperienza come capo ufficio stampa della presidenza della repubblica all’epoca di Francesco Cossiga, con il quale ha collaborato per l’intero settennato. Successivamente è stato ambasciatore a Lisbona (dal 1992 al 1995) e a Teheran (dal 1995 al 2000). In Arcus è entrato quando il ministero dei beni culturali era retto dal forzista Sandro Bondi, ma poi ha saputo rimanere imbullonato alla poltrona anche con tutti i ministri successivi: Giancarlo Galan, Lorenzo Ornaghi e Massimo Bray. Insomma, alla fine della fiera, e fermo restando il tetto complessivo dei 240 mila euro di compensi, Ortona continuerà a cumulare pensione e gettone di Arcus. Il quale, in base alla divisione in fasce recentemente effettuate dal Tesoro, per l’amministratore delegato è di 155 mila euro. Anche se, va detto, nel 2012 Ortona ha percepito solo 13 mila euro fino a quando è rimasto presidente e 7 mila euro da quando è amministratore unico.
@SSansonetti

Federico Mello ha già scritto un libro su Grillo illuminante per comprendere le bugie del Generale Pound. Andrò ad acquistare il suo nuovo libro domani. Ricordando che é stato perseguitato dai grillini talebani ed in particolare da quel grande ignorante di Nik il Nero.

Grillo e quella legge elettorale votata dalla minoranza degli iscritti al portale

di   - 04/07/2014 - Sul suo libro "Un altro blog è possibile" Federico Mello fotografa luci ed ombre della grande macchina dei 5 stelle

Grillo e quella legge elettorale votata dalla minoranza degli iscritti al portale
Lo ha deciso il popolo dei 5 stelle sulla rete, è stato scelto dai nostri utenti sul portale. Si parla sempre, nel bene e nel male, dell’interazione dei 5 stelle in quel sistema cheBeppe Grillo sancisce oggi come democrazia diretta. Quella liason, spesso usata dalMovimento per garantire (o smentire) la linea indicata dal capo del Movimento.Federico Mello, leccese, classe 1977, è giornalista e studioso dei rapporti tra Internet e politica. Ha iniziato come blogger, poi ha lavorato ad Annozero, è stato nel gruppo dei fondatori de «Il Fatto Quotidiano» e direttore del sito del quotidiano «Pubblico». Ora lavora nella redazione di Servizio Pubblico e collabora con l’Huffington Post Italia. Il suo ultimo libro “Un altro blog è possibile” (edito da Imprimatur editore) spiega croci e delizie del mondo dei 5 stelle e della loro interazione on-line. Delizie, perché parla della rivoluzione che di fatto Beppe Grillo ha inserito nella politica italiana, croci perché mette a nudo ombre, dubbi e sopratutto cartoline amare di quello che è il sistema di gogna mediatica (utile in tal senso le parole della senatrice espulsa Adele Gambaro raccolte nell’opera) e di meccanismi di interazione che stanno alla base della vita a 5 stelle. Per esempio l’attuale “Democratellum”. che ha diversi punti in comune con la legge depositata settimane prima del voto on line in Parlamento e a firma del deputato Danilo Toninelli, non è stato votato dalla maggioranza della utenza del portale. Numeri alla mano per l’iniziativa hanno interagito solo il 30 per cento degli iscritti certificati.  Perché?
m5s federico mello
E c’è un’ultima architettura di scelta di beppegrillo.it che è importante riportare. È quella che riguarda la definizione della proposta di legge elettorale del M5S su beppegrillo.it. In questo caso, nei primi mesi del 2014, le cose sono state fatte per bene. Uno storico, Aldo Giannulli, ha spiegato in vari video e post quali tematiche particolari e generali implichino una riforma del sistema di voto nazionale e, successivamente, passo passo, gli iscritti a blog sono stati chiamati a votare e a decidere sui singoli punti arrivando a un risultato condiviso; rispetto ad altre architetture capestro non c’è dubbio che questo caso rappresenti, caso rarissimo sul blog, un’architettura più simile a un “wiki” che a un social network.
Nei nove quesiti presentati alla base, però (“Proporzionale o maggioritario?”; “Collegio uninominale unico, nazionale o intermedio?”; “Proporzionale puro o corretto?”; “La correzione al proporzionale”; “Soglie di sbarramento o no?”; “Quale soglia di sbarramento?”; “Quale percentuale per la soglia di sbarramento?”; “Una o più preferenze?”; “Il voto di preferenza”), si è assistito a un fenomeno che pochi hanno notato. Per essere iscritti votanti al Movimento 5 Stelle bisogna seguire una procedura online e inviare un proprio documento d’identità scannerizzato: una volta ricevuta una conferma, si è iscritti a pieno titolo. Ai tempi delle Quirinarie che premiarono Stefano Rodotà, gli aventi diritti al voto erano poco meno di 50 mila (48.292). A settembre 2013 il blog informava che questo numero era lievitato a 80 mila. Ebbene, è interessante notare che alle nove votazioni hanno partecipato in pochi: erano 32.847 i votanti al primo quesito, calati a 24.316 all’ultimo: il 30 per cento del totale degli iscritti. Insomma, si conferma che quando si ha a che fare con architetture di scelta articolate, nelle quali è richiesto un minimo di impegno, il numero dei partecipanti crolla. Bisogna aggiungere inoltre, che risulta di sicuro interesse la procedura messa in pratica dal Movimento e volendo potrebbe rappresentare una strada innovativa per aumentare la partecipazione di alcuni cittadini su alcune decisioni pubbliche.
Mi chiedo, però, se davvero una legge elettorale fatta online debba per forza risultare migliore di una redatta da specialisti (politologi, costituzionalisti, esperti di sistemi elettorali, scienziati politici, docenti di diritto costituzionale e di diritto pubblico comparato). Abbiamo visto che l’“effetto disinibizione online” provoca una sorta di credenza per la quale… “siamo tutti uguali”, che tende a minimizzare autorità e autorevolezza. Per carità, è sacrosanto il diritto a poter criticare chiunque, ancora di più se ricopre posizioni di potere e di prestigio. È anche vero, però, che competenza e autorevolezza sono medaglie che vanno guadagnate sul campo, con il tempo e l’impegno, e non è sufficiente un commento sui social network per autodefinirsi esperti di materie complesse; il diritto alla cittadinanza non implica anche il diritto alla competenza. Un altro mito che ci ha consegnato la Rete anni Novanta è l’“User generated content”, i contenuti generati dagli utenti. Si tratta di contenuti a volte buoni, a volte ottimi e di cui non sarebbe stato possibile fruire senza il web. Ma quando la complessità di progetti e idee aumenta, è quasi impossibile realizzare contenuti o prodotti di qualità. Sarebbe possibile tramite qualche discussione online progettare un’automobile o uno smartphone? In Rete si potrebbe scrivere un romanzo o una sceneggiatura di buona qualità?
Il mito dell’uomo comune online che tutto sa e tutto capisce è più una forma di propaganda che una realtà di fatto. Come recita una battuta fulminante che gira su Internet, se devo essere operato a cuore aperto, ho bisogno di un “chirurgo”, non di un “social chirurgo”. E non si capisce perché se ho bisogno di informarmi, invece che a un giornalista mi debba rivolgere a un “social journalist”; o perché per realizzare la legge elettorale che porti il mio Paese nella terza Repubblica debba chiedere a persone che hanno altre professionalità, altre competenze, altre passioni.
È questo un approccio alla politica che personalmente ho sempre contrastato: è lo stesso che ritiene che le soluzioni ai problemi pubblici e collettivi siano tecniche e non politiche. Un approccio simile ha fiaccato, per esempio, il movimento ambientalista “classico”: pensare che l’inquinamento aumenti perché non ci sono alternative verdi ai combustibili fossili è un modo inefficace di ragionare; le decisioni pubbliche sulle questioni ambientali discendono da rapporti di forza politici, non dalle soluzioni tecniche. L’ideologia grillina ha un approccio opposto: «Perché una massaia non può fare il ministro dell’economia?» ha chiesto una volta Grillo e «Siamo tutti giornalisti» è uno slogan che il blog ha ripetuto spesso. I 5 Stelle affermano continuamente di rappresentare i “cittadini”, come se questi fossero un corpo unico, come se tutti i “cittadini” avessero uguali bisogni e desideri. Non è così, non si può dimenticare che i “cittadini” appartengono quantomeno a classi sociali diverse. Anche sui territori la costruzione di un parcheggio, lo smantellamento di un parco, una decisione sulla mobilità, vedono sempre cittadini dagli uguali diritti su posizioni contrarie. È qui che interviene la politica, a questo serve, a far sì che il più votato scelga tra istanze diverse prendendosi responsabilità di governo per il bene di tutti. Il Movimento 5 Stelle la pensa diversamente. Al tal punto arriva il suo determinismo tecnologico che potrebbe prima o poi proporre di sviluppare un software, iGovernment, potremmo chiamarlo, che decida in base a dati e algoritmi la cosa giusta da fare per governare un Paese. Naturalmente, non funzionerebbe, perché su grandi quesiti un’unica soluzione giusta non esiste. Nonostante la potenza dei microprocessori, è meglio il confronto politico di qualsiasi algoritmo.

Che bei soggetti nel M5S. Questa si voleva farsi eleggere per evitare di essere condannata. Come hanno fatto tutti politici fino ad oggi.

Mennella licenziata per "infedeltà" dall'Azienda ospedaliera Lecchese

 Commenti

Ma basta con questo stillicidio. La minoranza rispetti l'esito delle primarie. Non é accettabile che si giochi sulla pelle della gente.

Italicum, nel Pd cresce la fronda pro preferenze: “Non può decidere Berlusconi”

La minoranza democratica sempre più agitata. Il bersaniano Nico Stumpo: "Abbiamo occupato le piazze quando è stato approvato il Porcellum, vogliamo garantire ai cittadini la scelta dei candidati". Il senatore Gotor: "Una delle soluzioni è l'introduzione dei collegi uninominali"

Italicum, nel Pd cresce la fronda pro preferenze: “Non può decidere Berlusconi”
“Dentro al Pd c’è una voglia evidente di garantire ai cittadini la scelta dei candidati. Certe pulsioni, del resto, non possono essere frenate perché Forza Italia non vuole”. Sospira il bersaniano Nico Stumpo quando scandisce queste parole a ilfattoquotidiano.it. Parole forti che in un certo senso rivelano lo stato d’animo di una minoranza sofferente, che subisce giorno dopo giorno il legame “forte” fra il premier in carica e l’ex presidente del Consiglio, il “condannato” Silvio Berlusconi. Del resto, Renzi e il “condannato” Cavaliere di Arcore si sono già incontrati tre volte. Tre volte in cui l’ex sindaco di Firenze non ha battuto ciglio, accogliendo tutte le richieste del leader di Forza Italia. Il ragionamento, infatti, che a taccuini chiusi raccontano esponenti di punta dell’opposizione interna di Largo del Nazareno è il seguente: “D’accordo non siamo mai stati strenui difensori delle preferenze, ma abbiamo occupato le piazze quando è stato approvato il Porcellum”.
Per anni il Partito democratico – prima con Walter Veltroni, poi per un breve lasso di tempo conDario Franceschini, e, infine, con la segreteria di Pier Luigi Bersani – ha ripetuto fino allo sfinimento che una volta giunto al governo avrebbe reintrodotto le preferenze perché “ai cittadini deve essere garantito il diritto di scegliere i parlamentari”. E oggi, si lascia andare più di un deputato in Transatlantico, “non esiste che dall’opposizione Berlusconi debba decidere se introdurre le preferenze o meno”.
Ecco perché i mugugni delle ultime settimane si sono trasformati in vere e proprie prese di posizioni. Così all’indomani dell’incontro tra Renzi e Berlusconi – incontro che avrebbe sancito il rispetto del Patto del Nazareno senza, però, le preferenze – la minoranza uscita dal congresso tiene a precisare che la discussione sull’Italicum, e, per l’appunto, sul diritto di scelta dei cittadini è “aperta, apertissima”. “Quando il gioco si fa duro le partite politiche sono aperte”, dice a ilfattoquotidiano.it il senatore bersaniano, Miguel Gotor. Il quale, assicura, che “non è possibile ridurre la democrazia italiana a un Senato di secondo grado (come è giusto che sia un Senato delle autonomie) e a una Camera di nominati. A questo punto bisogna restituire il diritto di scelta ai cittadini per evitare una chiusura oligarchica della democrazia italiana. E i modi sono due: o i collegi uninominali, o l’introduzione della doppia preferenza di genere. Io la penso così in maniera determinata, convinta, perché ritengo non sia possibile favorire una tale chiusura della democrazia italiana soprattutto in un momento di crisi come questo, ovvero di difficoltà di rapporti fra i cittadini e le istituzioni”.
Questa non è la posizione di una parte, precisa Gotor, perché “la fronda la fa chi pretende di avere un Senato di secondo grado e una Camera di nominati”. Un’area, chiamiamola così, che si estende oltre i confini classici, e passa per Pippo Civati – “Io sono per i collegi uninominali, ma certamente le preferenze sono migliori delle liste bloccate” – la cosiddetta area-riformista (bersaniani e lettiani), e una parte dei dalemiani. E persino per chi della minoranza non fa parte. “La discussione è aperta – dice il veltronian-renziano Walter Verini a ilfattoquotidiano.it – ad una condizione però: i cambiamenti si possono fare se tutte le forze che hanno dato vita al Patto del Nazareno concordano. Un tema aperto c’è: dare la possibilità ai cittadini di scegliere i candidati. Un conto, infatti, è avere liste, comunque bloccate, di 3-4 candidati, altro sono liste bloccate del Porcellum con 30 candidati. Oppure si potrebbe propendere sulle preferenze o sui collegi uninominali. E tra le ultime due quella preferibile è la seconda perché è più trasparente e consentirebbe ai partiti di puntare sulle figure più prestigiose”.
Alla fine, però, il punto di approdo – si vocifera in ambienti democrat – è facile che sia il cosiddetto “modello Boschi”, ovvero un sistema misto che garantirebbe i capolista, mentre il resto dei candidati si giocherebbe la partita attraverso i consensi. Un sistema studiato apposta in queste ore per non scontentare nessuno: il Cavaliere, la minoranza Pd, e il Ncd di Alfano. Ma, “anche con questo sistema – afferma una bersaniana – ci sarebbero 90 nominati, in base al numero dei collegi. E chi glielo racconterà ai militanti che siamo stati costretti a inserire questo sistema per garantire i parlamentari prescelti da Silvio Berlusconi?“. Insomma, la battaglia è ancora aperta. Condannato permettendo.

Un grandissimo Papa. Straordinario.

Papa Francesco: “Non portare il pane a casa toglie la dignità”

L'emergenza lavoro è stata al centro dell'omelia pronunciata dal Pontefice nel suo quinto viaggio pastorale in Molise. Incontrando il mondo dell'industria ha proposto di dare vita a "patto per il lavoro che sappia cogliere le opportunità offerte dalle normative nazionali ed europee"

Papa Francesco: “Non portare il pane a casa toglie la dignità”
Un “patto per il lavoro che sappia cogliere le opportunità offerte dalle normative nazionali ed europee”. È questa la proposta che Papa Francesco ha rivolto a Campobasso incontrando il mondo del lavoro e dell’industria. “Tanti posti di lavoro – ha spiegato Bergoglio – potrebbero essere recuperati attraverso una strategia concordata con le autorità nazionali”. E a braccio Francesco ha spiegato che “il problema più grave non è la fame, ma è non portare il pane a casa perché questo toglie la dignità”. L’emergenza lavoro, così come Bergoglio aveva già fatto nel suo viaggio a Cagliari nel settembre del 2013, è stata al centro della visita pastorale del Papa in Molise.
Appena giunto nella Regione, Francesco ha ascoltato le testimonianze di un agricoltore e di un’operaia della Fiat e ha fatto suo il loro appello affinché la terra sia custodita “perché – ha aggiunto sempre parlando a braccio – sfruttare la terra è peccato”. Francesco ha chiesto, inoltre, che la domenica sia ” libera dal lavoro, eccettuati i servizi necessari” per “affermare che la priorità non è all’economico, ma all’umano, al gratuito, alle relazioni non commerciali ma familiari, amicali, per i credenti alla relazione con Dio e con la comunità. Forse – ha aggiunto il Papa – è giunto il momento di domandarci se quella di lavorare alla domenica è una vera libertà“. Sempre l’emergenza lavoro è stata al centro dell’omelia che Francesco ha tenuto nella Messa celebrata nell’ex Stadio Romagnolidi Campobasso. Il Papa ha chiesto di diffondere “dappertutto la cultura della solidarietà” e ha ricordato che “c’è tanto bisogno di questo impegno, di fronte alle situazioni di precarietà materiale e spirituale, specialmente di fronte alla disoccupazione, una piaga che richiede ogni sforzo e tanto coraggio da parte di tutti. Quella del lavoro è una sfida che interpella in modo particolare la responsabilità delle istituzioni, del mondo imprenditoriale e finanziario. È necessario – ha aggiunto il Papa – porre la dignità della persona umana al centro di ogni prospettiva e di ogni azione. Gli altri interessi, anche se legittimi, sono secondari”.
Bergoglio ha invitato i fedeli a liberarsi dal “grigiore esistenziale”, da “ambizioni e rivalità”, dalla “sfiducia, dalla tristezza, dalla paura, dal vuoto interiore, dall’isolamento, dai rimpianti, dalle lamentale. Anche nelle nostre comunità infatti – ha sottolineato il Papa – non mancano atteggiamenti negativi, che rendono le persone autoreferenziali, preoccupate più di difendersi che di donarsi”. Dopo la Messa, l’abbraccio di Francesco con gli ammalati nella cattedrale di Campobasso e il pranzo con i poveri assistiti dalla Caritas nella “Casa degli Angeli”. Quello in Molise è il quinto viaggio pastorale del Papa in Italia dopo quelli in Sicilia, Sardegna, Umbria e Calabria. Una tappa che arriva esattamente due settimane dopo la scomunica dei mafiosi pronunciata con fermezza da Francesco nella piana di Sibari, un gesto senza precedenti della storia della Chiesa con il quale Bergoglio ha superato persino l’anatema pronunciato da Karol Wojtyla nel 1993 ad Agrigento e che ha suscitato nell’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, la proposta di abolire per 10 anni i padrini di battesimi e cresime per evitare infiltrazioni criminali nella Chiesa.
Ma la lotta alla ‘ndrangheta è presente anche in Molise, come ha sottolineato l’arcivescovo diCampobasso-Boiano, monsignor Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione della Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, da sempre impegnato in prima linea nella lotta alla mafia già quando era alla guida della diocesi di Locri-Gerace. Bregantini, che ha accolto Bergoglio nella sua prima tappa in Molise e a cui il Papa ha affidato la preparazione delle meditazionidella via crucis del venerdì santo 2014 che si è tenuta al Colosseo, nel libro “Santa Malavita Organizzata” (Paoline) della giornalista di Famiglia Cristiana Annachiara Valle, scrive che “è necessario affrontare la purificazione della famosa ‘zona grigia’, che ci avvolge un po’ tutti. E che si estende anche al Molise e ad altre regioni. Dove non sai veramente dar nome ed etichetta a certe scelte. Dove i confini non sono ben precisi. Dove si ha l’impressione di procedere a tentoni, in un ‘labirinto’. Imprendibile, con muri di gomma da analizzare. In ogni ambiente, infatti, la ‘ndrangheta è brava a confondere le acque, a gettare discredito, a mettere in difficoltà chi la vuole combattere”.

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...