sabato 18 gennaio 2014

Leghisti razzisti e inconcludenti nonché ladroni in casa nostra e grillino talebani ignoranti ci possono dire come risolverebbero questi problemi?

Cgil: nel 2013 persi 8mila euro
in busta paga per ogni lavoratore

Il sindacato su dati Inps: nel 2013 in 515 mila in cassintegrazione a zero ore, persi 4.125 milioni, ovvero 8 mila euro in meno in busta paga per ogni singolo lavoratore | Rappresentanza: sì Cgil, no della Fiom di M. Fr.
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18 gennaio 2014
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Oltre 515 mila lavoratori relegati per l'intero 2013 in cassa integrazione a zero ore, in ragione di 1.075 milioni di ore di cig, richieste e autorizzate lo scorso anno, ovvero il terzo peggior risultato degli ultimi quattro. Una mole tale che porta il totale di ore nei passati sei anni, a partire cioè dal 2008, a più di 5,4 miliardi.

Rappresentanza: sì Cgil, no della Fiom di M. Fr.

È in estrema sintesi il bilancio degli effetti determinati dalla crisi in termini di ricorso secondo le rilevazioni dell'Inps da parte dell'Osservatorio Cig della Cgil nazionale nel rapporto di dicembre 2013.

La forzata astensione dal lavoro per l'oltre mezzo milione di lavoratori coinvolti nei processi di cassa a zero ore nel 2013 ha inciso inoltre pesantemente sul reddito con la perdita complessiva di oltre 4.125 milioni di euro, ovvero 8 mila euro in meno in busta paga per ogni singolo lavoratore.

Riceviamo e pubblichiamo.

Non chi dice “Rete, Rete” entrerà nel Regno dei Network

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Il successo politico di Beppe Grillo si è basato sul rifiuto dei media mainstream e su una campagna sviluppata esclusivamente attraverso il suo blog personale. Ma questo fenomeno può essere considerato come un esempio di democrazia - più a parole che nei fatti, in realtà - per interagire con un pubblico globale? 
di Pierfranco Pellizzetti, da Vanguardia Dossier n° 50, enero/marzo 2014

Beppe Grillo (Genova, 1948) è stato definito il “Couluche italiano”, con riferimento al comico che nel 1981 osò sfidare François Mitterand nelle elezioni presidenziali francesi. Del resto, i due si conobbero nel 1985 sul set del film “Scemo di guerra”.

Ora si può dire che l’allievo ha surclassato il maestro; visto che, nelle elezioni politiche del febbraio scorso, l’ex showman italiano ha conquistato con il movimento di cui è leader (Cinquestelle, M5S) un quarto abbondante dei suffragi (circa 8,7 milioni). Un risultato senza precedenti, che ha fatto eleggere in Parlamento ben 163 candidati, tra senatori (54) e deputati (109), subito soprannominati “grillini”. In particolare alla Camera, dove la base dei votanti è più giovane, M5S risulta il primo partito nazionale con il 25,5% dei voti, contro il 25,4 del Centrosinistra (PD) e il 21, 5 andato alla destra di Berlusconi (PDL). L’età media dei suoi rappresentanti risulta di 33 anni: una piccola rivoluzione, stante la tradizionale gerontocrazia della politica italiana, in quella più grande, rappresentata dal boom di consensi per un movimento nato da neppure tre anni e mezzo (4 ottobre 2009).

Considerando che la sua campagna vittoriosa è stata contrassegnata dal rifiuto di qualsivoglia contatto con gli organi di informazione tradizionali – stampa e televisione – di cui Grillo denuncia costantemente la compromissione con il potere, svolgendosi esclusivamente attraverso il blog intestato al leader (il più visitato in Italia, nonché stimato dai rating di settore tra i cinquanta “più potenti al mondo”), è risultato quasi inevitabile spiegare l’accaduto come un chiaro effetto della “potenza della rete”. Ma davvero il “caso Grillo” è completamente inquadrabile nell’ormai classico paradigma di Manuel Castells della “autocomunicazione orizzontale di massa” (l’interazione attraverso Internet che ha la possibilità di raggiungere un pubblico globale, in cui la produzione dei messaggi è autogenerata e la definizione dei potenziali destinatari autodiretta)? O non piuttosto il blend grillino è una strana miscela di nuovo e di antico? Per chiarirlo bisogna procedere con ordine.

Il futuro comico prestato alla politica nasce a Genova, città di antiche tradizioni operaie, in un quartiere abitato da piccola borghesia di orientamento genericamente conservatore. Suo padre produce artigianalmente cannelli di saldatura e il giovane Grillo si diploma ragioniere per poi sperimentare varie attività, tra cui il piazzista di capi d’abbigliamento. Infine trova la sua strada nel mondo del cabaret, specializzandosi in lunghi monologhi di generica critica di costume, in cui riesce a far diventare spassosi i luoghi comuni di un umore genericamente protestatario, proprio dell’ambiente di provenienza (il mugugno, caratteristico dell’ethos genovese; quasi una sorta di rauxacatalana, però laconica). Così si fa notare, tanto da essere ingaggiato dalla televisione nazionale nel 1977, dove conoscerà un primo successo di massa. Finché, il 15 novembre 1986, preso dal caratteriale entusiasmo affabulatorio, non commetterà l’imprudenza di attaccare colui che in quel momento è “l’uomo forte” della politica italiana: Bettino Craxi, leader di quel partito socialista che Grillo paragona a una banda di ladri. Scoppia uno scandalo, l’incauto giovanotto viene allontanato dai set della TV, inizia una seconda vita. Ora “la vittima della partitocrazia” allestisce i suoi spettacoli di denuncia stile comizio in un circuito non istituzionale, fatto di piazze e stadi. E comincia a cavalcare, in modi spettacolarmente divulgativi, le tematiche della lotta all’inquinamento, ambientale ma anche dell’informazione, in cui può mettere a frutto la sua natura risentita tendente al rabbioso: sono gli anni delle battaglie contro le industrie che non rispettano le norme di sicurezza e colonizzano la vita delle persone imponendo un consumismo sfrenato.

Il nuovo successo lo trasforma in una sorta di profeta delle “decrescite felici” alla Serge Latouche (l’economista francese teorico dello sviluppo zero), il guru popolare del ritorno a una società preindustriale; alternando denunce motivate a vere e proprie sciocchezze: prese di posizione plateali contro le vaccinazioni in quanto imposte dal sistema sanitario, a favore di ipotetiche cure del cancro o – magari – promozionali della soluzioneecologica per sostituire i detersivi utilizzando una pallina di plastica contenente sferette ceramiche (la fantomatica biowashball).

Un pubblico sempre più bisognoso di credere e parteggiare, di accuse semplificatorie dei mali del mondo, lo elegge a proprio mito; affollandone gli show.

Finché nel 2005 il guru Grillo incontra a sua volta il proprio personale guru, colui che gli spalancherà le praterie sconfinate del WEB: GianRoberto Casaleggio, un perito informatico appena allontanato dalla direzione di una società controllata dal colosso telefonico Telecom Italia per i deficit accumulati; riciclatosi in creatore e gestore di siti con una propria dittà di consulenza (la Casaleggio Associati).

È amore a prima vista: il 26 gennaio 2005 Grillo dà totale carta bianca al nuovo amico per la realizzazione del blog, contenuti in primo luogo, intestato a proprio nome. Cui presto sarà affiancato il “meetup Amici di Beppe Grillo” (“per comunicare e coordinare localmente”, si dirà in un primo momento).

Il visionario Casaleggio, autore di un video fantasy-naif “Gaia” in cui prefigura prossimi conflitti mondiali con svariati miliardi di morti e successivo passaggio alla e-democracyplanetaria (fornendo persino la data esatta dell’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale attraverso Internet: 14 agosto 2054), inizia subito a bombardare i militanti che visitano il sito con le sue utopie pittoresche quanto banalizzanti (e, poi vedremo, manipolatrici) sulla democrazia diretta: la rappresentanza è finita, i partiti sono finiti, la nuova politica sorgerà dalla rete.

Banalizzazioni pittoresche – dunque – come è mestiere tipico della consulenza di comunicazione, specializzata nell’infiocchettare messaggi “a fumetti” e luoghi comuni. Intanto Grillo smette improvvisamente di attaccare nei suoi spettacoli le aziende in rete con Casaleggio, a cominciare dagli amici ritrovati di Telecom. Se negli anni precedenti leperformances del comico si concludevano distruggendo a bastonate un personal computer, ora il PC è il nuovo tabernacolo di una rivelazione dal sapore tecno-messianico.

La nuova frontiera diventa l’impegno diretto nella politica nazionale; sotto l’influsso del suo spin-doctor, che pure ha vissuto in prima persona una sola esperienza diretta in ambito pubblico. Quando, si candidò senza successo nel 2004 alle elezioni per il consiglio comunale di Settimo Vittone, il paesino torinese dove mantiene la propria residenza, in una lista locale ispirata dal partito di Berlusconi. Prendendo sei voti sei.

Ma giocarsi la faccia in prima persona non è congeniale a Casaleggio, che è più tipo da restare dietro le quinte a tirare i fili; nonostante la vistosa capigliatura riccioluta quattrocentesca alla Botticelli. Magari qualcuno lo definisce un Rasputin.

L’uomo-immagine resta Grillo; che, dopo aver lanciato sul blog la battaglia mediatica “Parlamento Pulito”, inizia la serie dei “Vaffa-day” (con il “vaffa” che è la contrazione di un modo estremamente volgare con cui mandare al diavolo qualcuno; e il “V” riprende il titolo di un film fantapolitico di grande successo del 2005 - “V for Vendetta”- tratto da un romanzo a fumetti interiorizzato dagli immaginari di massa).

L’8 settembre 2007 il “Vaffa” riunisce nella piazza principale di Bologna oltre cinquantamila partecipanti allo show di Grillo, che presenta la raccolta-firme per tre proposte di legge ad iniziativa popolare: divieto della candidatura alle cariche pubbliche di pregiudicati; divieto di rielezione dopo due legislature; elezione diretta dei rappresentanti. Le sottoscrizioni risulteranno 336mila, sei volte più di quante erano legalmente necessarie per la presentazione di tali proposte.

Da qui parte l’avventura del M5S, iniziando a mietere successi che superano di gran lunga le percentuali accreditate dai sondaggi. Le elezioni amministrative fungeranno da prova generale: nel 2010 il movimento presenta le proprie liste in cinque regioni, con un buon successo in Emilia-Romagna dove incassa il 7% dei voti ed elegge due consiglieri; l’anno successivo partecipa ai rinnovi di 21 capoluoghi di provincia su 28, ricevendo consensi perfino al 30% e vincendo nel ballottaggio la poltrona di sindaco nell’importante città di Parma, con Federico Pizzarotti che sconfigge il candidato del centrosinistra appoggiato dall’intero establishment cittadino.

Ormai risulta evidente come il Grillismo riesca a intercettare quello che ormai è diventato il primo partito italiano, nel crollo di credibilità delle formazioni ufficiali in campo: l’astensione nel non-voto. I critici parlano di “antipolitica”; ma gli osservatori di orientamento imparziale preferiscono usare l’espressione “altra politica”; intendendo con ciò sottolineare la crescita della domanda di una politica meno oligarchica e più vicina ai cittadini, più democratica.

Sull’onda dei primi successi arriverà lo straordinario risultato del 24-25 febbraio scorsi. Quello che appare il punto di massima ascensione del Cinquestelle. Perché è da qui che incominciano i problemi.

C’è da dire che – a quanto pare - l’esito non era stato previsto neppure dal duo Grillo-Casaleggio, i quali ritenevano di dover affrontare una fase all’opposizione in cui avere tutto il tempo per crescere e consolidarsi. Mentre ora si trovano in prima linea, con un personale parlamentare di neofiti, a fronte di sfide complesse e le aspettative pressanti del proprio elettorato; che si potrebbe ripartire a metà tra l’appartenenza e il voto d’opinione. Infatti la presenza del M5S risulta incastrata nel principio cardine ribadito in campagna elettorale: noi non facciamo alleanze. Una dichiarazione di incrollabile “purezza”, ma che contrasta con la necessità di incidere sul quadro politico, pena l’insignificanza. E qui balzano in evidenza due aspetti che sino a quel momento erano rimasti sottotraccia: la natura padronale e verticistica della leadership, lo stringente controllo repressivo del dibattito interno. Aspetti in totale contrasto con lo spirito conclamato del Movimento: il democraticismo di base e l’orientamento libertario.

In effetti avrebbe dovuto far riflettere il fatto che il marchio “Cinquestelle” è proprietà personale del signor Giuseppe (Beppe) Grillo, registrata con tanto di atto notarile. E in base a questo diritto esclusivo il Capo può permettersi di espellere chi non si adegui ai suoi diktat imposti come linea ufficiale.

Si era cominciato già agli albori della vicenda con la cacciata di un socio storico come Valentino Tavolacci, consigliere comunale di Ferrara e reo di aver indetto una riunione dei grillini locali senza il placet del capo, fino all’espulsione della senatrice Adele Gambaro, per aver osato criticare i toni eccessivamente truculenti dei post di Grillo, dove gli insulti si alternano alle storpiature irridenti dei nomi.

boatos interni dicono che l’ira del Padre-Padrone scatta a comando come esecuzione delle sentenze poliziesche di Casaleggio; il “Beria” del M5S, che filtra sistematicamente le opinioni indirizzate al sito sociale dai militanti, soprattutto se critiche. Strano atteggiamento per un teorico del “mondo nuovo” della democrazia via WEB many-to-many (tanti che comunicano a tanti). Nel “mondo vecchio” la si chiamava censura.

Aspetti che contraddicono in maniera lampante la fattispecie dell’autocomunicazione orizzontale di massa, di cui si diceva; tanto che la democrazia in rete appare più uno slogan che non un’effettiva applicazione di innovativi criteri liberatori. Difatti le consultazioni online sulle decisioni cruciali che si sono dovute prendere, a partire dalla scelta dei candidati nelle liste elettorali del Movimento, sono avvenute nella più assoluta opacità e nessuno ha potuto esercitare il minimo controllo sui risultati promulgati in perfetto stile top-down dai consulenti della Casaleggio Associati. Pratiche da cui risalta la vera cultura politica della leadership a due teste di Cinquestelle: verticismo padronale con una riverniciatura di parole alla moda. Come lo si può constatare nell’affermazione dogmatica ricorrente che “la divisione politica tra Destra e Sinistra sarebbe superata”; in cui si incrocia l’intento del marketing pigliatutto con la retorica di Destra nei suoi intenti mimetici. Il tipico armamentario del revival reazionario che rompe gli schemi di gioco indossando i panni del rinnovamento, grazie al quale si è imposta l’egemonia mondiale Neocon.

Di conseguenza i primi passi del M5S in Parlamento hanno coinciso con un’accelerata perdita di spinta propulsiva. Anche perché il rifiuto di dialogare con qualsivoglia interlocutore ha prodotto un effetto inevitabile: lo stallo; la marginalizzazione volontaria.

La prima decisione da prendere era quella relativa al rinnovo di presidenza della Repubblica e, nonostante il Movimento avesse candidato una personalità di altissimo livello morale e intellettuale come il giurista Stefano Rodotà, il suo isolazionismo ha determinato il fallimento della proposta. Nell’impasse conseguente, si determinava una forte spinta a convergere tra le altre forze politiche, che si è tradotta nella riconferma del presidente uscente, il quasi novantenne Giorgio Napolitano; il quale diventava il vero regista del ripristino di quegli equilibri di cui Grillo e i suoi seguaci avevano garantito la liquidazione. Difatti sotto la supervisione di Napolitano, un ex comunista ossessionato dall’idea che i partiti devono tenere sotto controllo la società, è nato quel governo cosiddetto delle “larghe intese”, guidato dall’esponente del Partito Democratico Enrico Letta (tra l’altro nipote di quel Gianni Letta che è il primo consigliere di Silvio Berlusconi), che formalizza la collusione spartitoria tra Centrosinistra e Destra. Anche questo un fenomeno patologico che i rifondatori Cinquestelle della politica avevano promesso di estirpare.

Sicché, incapace di governare le trasformazioni, che pure aveva avviato con lo sfondamento elettorale, mentre il quadro politico gli si sta richiudendo sulla testa, il M5S pensa di ribadire la propria (sterile) verginità con gesti spettacolari: rinunciando ai finanziamenti elettorali previsti e rendendo parte degli emolumenti dei propri parlamentari. Si intuisce che attende ulteriori deterioramenti del quadro politico, per ritornare a fare quello che gli riesce meglio: la campagna elettorale.

Intanto vengono sempre di più al pettine i nodi di una democrazia in rete recitata più che praticata. Se ne è avuta ulteriore conferma nel mese di giugno, quando è stato rinnovato il consiglio comunale della Capitale e i Cinquestelle dovevano individuare il loro candidato sindaco con la solita consultazione in rete di tipo propagandistico: dei 2.383 aventi diritto a partecipare, i voti espressi sono stati grossomodo un migliaio. Ridicolo il numero di votanti per una città come Roma, a fronte dei suoi 2,7 milioni di abitanti, penosa la quantità di indicazioni espresse.

Ma se non ci facciamo ingannare dalle chiacchiere “internettare”, forse riusciamo a capire meglio l’intima natura del Movimento. Che non è quella del networking, bensì dello star system. Ossia, quanto il costituzionalista francese Bernard Manin definisce “democrazia del pubblico”, in cui il leader si trasforma nella star tipo reality televisivo e – di conseguenza – il rapporto che i cittadini intrattengono nei suoi confronti è quello dell’identificazione acritica; insomma, spettatori, il cui unico diritto è quello di applaudire.

La personalizzazione spettacolarizzata della politica: regola che Silvio Berlusconi ha imposto da una ventina di anni sulla scena italiana; e di cui Beppe Grillo si rivela il più recente erede. Non a caso il modello star system risulta particolarmente efficace per vincere le elezioni, quanto del tutto inadeguato per esprimere gruppi dirigenti in grado di governare. Non per niente le ultime rilevazioni in materia di orientamenti elettorali segnalano una forte tendenza all’ulteriore emigrazione verso l’assenteismo, nella convinzione (perniciosa per la salute democratica del paese) che “tanto non cambierà niente”.

Probabilmente la grande opportunità di sbloccare il gioco politico è andata perduta, in quanto leader improvvisati come Grillo e Casaleggio hanno dimostrato di ignorare la regola fondamentale del successo in materia: cogliere i tempi. Anche se la congiuntura potrebbe offrirgli una seconda opportunità. Nella crisi economica e sociale in costante avvitamento, mentre la disoccupazione cresce e diventa sempre più difficile per le famiglie arrivare a fine mese.

Ma puntare sul “tanto peggio tanto meglio” rischia di rivelarsi un calcolo sbagliato: al timone del governo c’è ora un giovane molto abile quale Letta, cresciuto all’antica scuola dei cattolici in politica, che ha un solo compito: tirarla per le lunghe. Ossia far durare il governo ad ogni costo, in modo che l’indignazione sociale scivoli gradatamente nell’abbandono del fatalismo più apatico/rinunciatario; la carica dirompente dell’Altrapolitica sfumi nella delusione da inconcludenza.

D’altro canto, l’Italia non è forse il Paese del Gattopardo e del suo motto immortale “tutto deve cambiare perché nulla cambi”? Inoltre – parlando a proposito di star system – non è anche la terra di maschere famose, da Arlecchino a Pulcinella?

(14 gennaio 2014)

Finalmente si confrontano idee all'interno di un sindacato. Proprio il contrario della Cisl, sindacato nel quale si lascia al proprio posto una funzionaria corrotta che si accorda con un ispettore tecnico per danneggiare un dirigente scolastico. Mandiamo a casa questi funzionari della Cisl che assomigliano ai sindacalisti polacchi prima di Solidarnosc.

Landini rottama le liturgie Cgil e lancia la disobbedienza anti-Camusso

Il segretario della Fiom ieri ha sfidato nel direttivo della Cgil la segretaria generale. Cremaschi: «Una cosa mai vista»
Landini rottama le liturgie Cgil e lancia la disobbedienza anti-Camusso
Su un punto sono tutti d’accordo: una cosa così non si era mai vista. Maurizio Landini ieri ha preso la parola nel direttivo della Cgil e ha sfidato apertamente il segretario Susanna Camusso, infrangendo la tradizionale liturgia sindacale con una franchezza che ha lasciato stupefatto anche il duro e puro Giorgio Cremaschi, che a Europa confessa: «È la prima volta che il segretario della Fiom dissente in maniera tale dal vertice della Cgil».
La frattura tra Landini e Camusso si è aperta intorno all’accordo sulla rappresentanza firmato dalla segretaria insieme a Cisl, Uil e Confindustria e contestato dalla Fiom, che ieri ha chiesto di ritirare la firma. La linea Camusso ha vinto, come era prevedibile, con 95 voti contro 13. Ma il voto del direttivo anziché chiudere la questione ne ha scoperchiata una ancora più grande. Landini, infatti, ha detto che la Fiom non riconosce quell’accordo e che non lo applicherà, disobbedendo alla linea della segreteria Cgil e non «escludendo nessuna azione» contro l’intesa (tranne quella, estrema, di uscire dalla confederazione sindacale).
La contromossa Fiom più probabile è quella di far discutere l’accordo ai metalmeccanici e sottoporlo poi al voto, rafforzando così il dissenso verso la Camusso con il sovrappiù di una legittimazione democratica. Perché è proprio su questo punto che Landini insiste, «la crisi democratica della Cgil».
E così oltre a infrangere i riti tradizionali del sindacato (chi si chiede quale sia il tratto che più accomuna Landini a Renzi è proprio qui che deve guardare), la disobbedienza del segretario della Fiom fa deflagrare il patto di maggioranza che si era costituito intorno alla mozione unitaria firmata sia da Landini sia da Camusso per il congresso cigiellino. Quella maggioranza, oggi, non c’è più. La Fiom promette di condurre la sua battaglia sino in fondo, portandola alle estreme conseguenze nelle assise del 6, 7 e 8 maggio, dove ogni emendamento sarà un’occasione per mettere in difficoltà la segreteria.
«Defezioni nelle altre strutture della Cgil al momento non ce ne sono, tutte sono strette intorno a Camusso», assicura Cremaschi – firmatario della mozione di minoranza, “Il sindacato è un’altra cosa” –, «ma il malumore è vistoso e questo passaggio sancisce l’esplosione della crisi della Cgil». Nicola Nicolosi, della segreteria, ha ammesso che c’è «un problema di democrazia». Mentre a Firenze il segretario della Fiom Daniele Calosi, l’uomo che ha promosso l’incontro tra Landini e Renzi, fino a poco fa vicino a Camusso, si è schierato con Landini. Ed è una sponda, questa del segretario Pd, che ora può diventare il vero jolly di Landini: se il sindaco di Firenze farà approvare la legge sulla rappresentanza, come ha promesso, la Fiom farà scacco matto. E anche questa sarebbe cosa mai vista.

Salvini è un ignorante cronico. Un segretario di partito così? In quale paese? Povera Italia mia.


Ladri, ladri, ladri. Hanno distrutto il nostro paese inquinandolo ovunque.


Un'analisi lucida e razionale di Ilvo Diamante. Da non perdere. Da leggere. Ad esclusione dei grillini che da veri ignoranti pensano ancora che la democrazia coincida con la rete. Poveri diavoli. Se leggessero almeno qualche buon autore citato da Diamanti potrebbero imparare qualcosa. Ma oltre il blog di Grillo el'intresse che hanno di poltrone permette loro una normale applicazione nella lettura? Difficile. Che é fesso solitamente rimane fesso.

Bussole

Le virtù democratiche della sfiducia digitale

Non è la prima volta che mi capita. Di essere letto in senso contrario o, almeno, diverso dalle intenzioni. Capiterà ancora. Eppure mi ha sorpreso un poco di vedermi, da qualche giorno, catalogato fra i nemici della rete da alcuni specialisti del settore. Perché  fatico a entrare in una parte che mi è estranea.

Vero: il titolo della mia Mappa dello scorso 14 gennaio evoca “la sfiducia digitale”, particolarmente elevata fra i giovani-adulti (25-35 anni) e, soprattutto, fra coloro che utilizzano la rete come “mezzo” di partecipazione politica. Quanto alla sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, è un dato consolidato. Anche (e di più) fra i militanti informatici. I Cives.net.

D’altra parte, i partiti - per primi - hanno fatto e continuano a fare molto per meritarsi tanta sfiducia. E per indebolire il consenso verso la democrazia rappresentativa. Che, nel corso del tempo, ha subìto una metamorfosi profonda. Da ultimo, si è trasformata in “democrazia del pubblico” (per citare Bernard Manin). Personalizzata e mediatizzata. Im-mediata. Istantanea.

Leader e popolo, pardon, pubblico, uno di fronte all’altro. Ma a senso unico. Perché il pubblico non può re-agire. Contro questo modello muove la “democrazia della rete”. Per usare le parole di Nadia Urbinati in un recente volume (del Mulino): come “reazione della democrazia in-diretta, o via web, contro quella indiretta” (mediata dai partiti e dai giornalisti). Anche se i dubbi sull’effettiva capacità della democrazia in-diretta di realizzare i suoi fini restano. Come mostra, da ultimo, il referendum del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità. Convocato e votato in fretta, senza possibilità di discussione e di confronto. Né di verificarne con rigore il risultato. Il che rivela i limiti dell’Agorà trasferita nella rete. A cui non tutti possono accedere. Perché oltre un terzo della popolazione non frequenta ancora la rete. Dove, inoltre, discutere e confrontarsi risulta complicato. Senza dimenticare il problema, non risolto, dei rapporti fra la rete e il potere - economico e politico (una questione su cui si è esercitato lo sguardo scettico e acuminato di Evgeny Morozov).

La rete, dunque, non è la causa del malessere che affligge la democrazia rappresentativa. Raffigurato da Colin Crouch, con una formule suggestive, ma poco “definitive”: la “post-democrazia”. Che descrive (e stigmatizza) una situazione simile alla “democrazia del pubblico”. Senza partecipazione. Ridotta a un rito. Tuttavia, il “malessere democratico” persiste e, anzi, si acuisce. Nonostante la democrazia in-diretta, fondata sulla e dalla rete. Che, dunque, non ne è la causa, ma neppure la soluzione.

Tuttavia, non era mia intenzione riflettere sul rapporto fra democrazia e rete, sulla democrazia-della-rete. Ma, più semplicemente, interrogarmi sulle ragioni che alimentano la sfiducia – non solo politica - nella rete.   La mia risposta, al proposito, è duplice.

In primo luogo: la rete non favorisce relazioni “empatiche”. La “community” non coincide con la “comunità”. In quanto non prevede contiguità, compresenza, coabitazione. I navigatori della rete (me compreso) intrattengono molti contatti – frequenti - ma restano fisicamente “lontani” fra loro. Sempre insieme e sempre più soli. Peraltro, la rete favorisce l’incontro fra amici e seguaci, attira Like e Follower. Ma non promuove il dialogo, il confronto fra persone di diversa opinione.

In secondo luogo, la “sfiducia” – politica - in rete si alimenta perché Internet è divenuto un terreno di lotta “contro” la politica - tradizionale. Contro quel che resta dei partiti. Perché, inoltre, sulla rete e nei Social Network, come ho già detto, la comunicazione trasferisce sentimenti e valutazioni in im-mediate. Senza mediazioni. E, dunque, più esplicite.
Anche per questo la “sfiducia politica” è divenuta una risorsa della competizione politica. Ne ha fatto uso Grillo. Ma anche Renzi, agitando la clava – retorica – della “rottamazione.

Tuttavia, la sfiducia non è, necessariamente, un “vizio”. In particolare, rispetto alla politica e la democrazia. Nella tradizione liberale, al contrario, costituisce una virtù “pubblica”. Come annota Benjamin Constant (nel 1829): “Ogni buona Costituzione è un atto di sfiducia”. In quanto deve tutelare e garantire i cittadini dalle ingerenze dello Stato e degli altri poteri. Così la Rete, insieme ad altre forme di mobilitazione e di associazionismo, favorisce la vigilanza civica nei confronti del potere. E contribuisce a promuovere, quella che Pierre Rosanvallon definisce la “controdemocrazia”. È la “democrazia della sorveglianza”, attraverso cui la società, nell’era della sfiducia, esercita poteri di “controllo e di correzione”, più che di “governo e direzione”.  E questo è il suo limite.

Se poi non si riesce ad essere felici, bisogna farsene una ragione. Non si può pretendere più sfiducia (digitale) e, insieme, più democrazia, senza pagare qualche prezzo. 
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Non solo é interessante il commento del parlamentare ex M5S. È interessante la lettura dei post dei grllini. Prima sostengono che il modo migliore di selezionare i cittadini onorevoli é la rete salvo denigrare a livello personale gli eletti che esprimono anche il minimo dissenso all'interno del M5S.

http://www.facebook.com/groups/solo5stelle/permalink/730891773587917/

Bene Renzi che ha ricevuto Berlusconi. Da D'Alema a ......tutti hanno sempre avuto un canale di comunicazione con Il pregiudicato. Quando un leader di un partito democratico riceve Berlusconi per parlare, alla luce del sole,del sistema elettorale e del titolo v ( altro grave errore fatto dal Pds) non va bene. Perché? E Letta quando si è preso il voto di fiducia del partito di Berlusconi perché non ha rifiutato? Ma basta con questo approccio sempre ideologico.

PATTO COL DIAVOLO & LEGGE ELETTORALE

#RenziBerlusconi, un paese normale

Il sindaco incontra il Cav alla luce del sole, nella sede del Pd: esce sconfitta la vecchia sinistra
Silvio Berlusconi
IN BREVE STAMPAINVIA AD
UN AMICO
PAROLE CHIAVE: 
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Gli dicono che ha sbagliato, che non doveva vederlo, “il Pd non deve fare la legge elettorale con un pregiudicato”, qualcuno getta un uovo, gli urlano che “con i criminali non si tratta” e adesso girano per i corridoi del partito con le narici aperte come trafitte da uno strano odore, puzza di Caimano.
 
 
E dunque Stefano Fassina vorrebbe andare a votare con il proporzionale, Gianni Cuperlo ascolta i consigli di Massimo D’Alema e si prepara alla battaglia, c’è chi minaccia la crisi di governo, e s’ode pure un contundente mormorare sotterraneo: “Attento, Renzi. Attento al voto segreto”. E così si riaffaccia il profilo baffuto dell’antico tramatore D’Alema, persino Anna Finocchiaro dicono abbia ritrovato la voce, e pure Rosy Bindi con gli amici non riesce a dissimulare un sorriso di speranza, “io l’ho sempre detto che Renzi è un piccolo Silvio”. E certo l’incontro dev’essere stato spettacolare tra questi due leader così diversi eppure così simili, ribaldi e seduttivi, Berlusconi e Renzi, l’anziano che ha imboccato il viale del tramonto e il ragazzino che ha deciso di arrampicarsi o morire. Ma nei sussurri minacciosi e nelle manovre occulte della sinistra, sconfitta dentro il Pd, s’avverte il sapore acre della vendetta e del rimpianto, forse persino dell’invidia, perché in un solo mese Renzi è forse riuscito dove loro hanno fallito in vent’anni.
 
 
Ciascuno dei leader della sinistra ha infatti avuto il suo periodo berlusconiano come Picasso ha avuto il suo periodo blu. Per Walter Veltroni il 2007 fu la stagione dei grandi accordi e delle sincere promesse, lui fondava il Partito democratico e sorrideva a Berlusconi mentre Prodi tremava al governo, come oggi Renzi incontra il Caimano mentre Letta traballa a Palazzo Chigi. “L’intesa è possibile”, diceva il Cavaliere, e Veltroni indugiava nel parlare di “convergenze rilevanti”, e già allora ovviamente si discuteva, come sempre e sempre inutilmente, di legge elettorale e di riforme. Berlusconi sgusciò via e Veltroni perse partita ed elezioni. Ma in principio fu D’Alema, il maestro di Cuperlo e di Fassina, di Orfini e di Andrea Orlando. A lui si deve in Italia il successo volgare della parola “inciucio”, quello che altrove si chiama patto, accordo, stretta di mano. E solo D’Alema incontrava Berlusconi di nascosto, autorizzando ogni retropensiero, offrendo l’immagine torbida di un mistero; mentre Renzi con Berlusconi parla nella sede del partito, nessun alberghetto defilato, nessun ritrovo d’incappucciati.
 
 
A quei tempi veniva mandato Sergio Mattarella a cenare in gran segreto in casa di Gianni Letta, con Berlusconi e Fini. E questo primo ambasciatore del centrosinistra andava, ma si doleva, convinto che cenare in casa del diavolo fosse una grave e greve necessità morale, un tipico dovere da padri della patria: “Davvero credete che nel ‘47 non ci fossero cene e incontri riservati? L’articolo sette, per esempio. Pensate che si sarebbe potuto scrivere senza contatti riservati tra Togliatti, De Gasperi e il Vaticano?”.
 
berlusconi, pd, veltroni
 
E soltanto D’Alema tesseva nell’ombra, affettava disprezzo e superiorità in pubblico, ma con il Belezebù d’Italia si scambiava pacche e sorrisi in privato, per poi riemergere con il patto della crostata, siglato in casa Letta alla Camilluccia. Il suo effimero capolavoro furono i giorni seri e dissipati della Bicamerale, “mi espongo al fuoco della storia”, disse lui, mentre Ciriaco De Mita, cui l’ironia non ha mai fatto difetto, commentava così: “Guardatelo, D’Alema ormai si muove come un Papa”. Fu un fiasco integrale, erano tutti convinti di passare alla storia, ma quella della Bicamerale fu una storia di carte, bozze, controbozze, aerei di carta, poesiole d’occasione, ghirigori, arabeschi, trappole insidiose, nervosismi e disfunzioni ormonali. Una perdita di tempo.
 
 
Adesso dicono a Renzi che non ci deve parlare con Berlusconi, lo avvertono e lo minacciano, “nella sede del partito mai”. Ed è come se avessero l’impressione che questo ragazzino, il maghetto di Firenze, lui che li ha ammaccati scippando loro il partito, possa riuscire anche in questa impresa, dove loro hanno fallito: afferrare per la coda il più anguillesco degli interlocutori, il Cavalier Berlusconi Silvio. E dunque non c’entra niente il Caimano infrequentabile che tutti hanno frequentato, con il suo odore di conflitto d’interessi, i suoi modi padronali, i suoi guai con la giustizia. Berlusconi è sempre lo stesso, la medesima anomalia, oggi come nel 1994. Ma in questo patto con il Diavolo, se davvero funzionerà, stavolta si consuma la disfatta della sinistra diessina, brucia d’un tratto un’intera storia di speranze e fallimenti. E sorge forse una legge elettorale che, maggioritaria e bipolarista, affida il potere di compilare le liste di deputati e senatori al giovane Renzi. È la sua presa del potere, la trasformazione antropologica della sinistra, la morte di un mondo che ­– c’è da scommetterci – farà di tutto per non farsi seppellire.
 

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...